Mantenimento del figlio maggiorenne: il cambio di rotta della Cassazione
Mantenimento del figlio maggiorenne: il cambio di rotta della Cassazione
Un'innovativa
decisione della Suprema Corte smantella una quantità di stereotipi
giurisprudenziali, restituendo ai figli centralità e riconoscendo loro piena
affidabilità (ord. 17183/2020)
Di Marino
Maglietta
Area legale
Pubblicato il 01/09/2020
Una illuminata
ordinanza della Suprema Corte smantella una quantità di stereotipi
giurisprudenziali, restituendo ai figli centralità e riconoscendo loro piena
affidabilità.
Sommario
·
La rilettura dell’art. 337 septies
c.c.
·
Il principio di autoresponsabilità
·
L’onere della prova e la titolarità
del credito
·
Le modalità per ottenere il
contributo e la sua gestione
·
Il destino economico del “genitore
collocatario” e la tutela del “coniuge debole”
·
Le ripercussioni sull’applicazione
dell’affidamento condiviso
La
fattispecie
Un’ordinanza
della Suprema Corte (testo in calce), apparentemente mirata solo a porre
dei limiti temporali al diritto dei figli maggiorenni ad essere mantenuti dei
genitori, in realtà prende una netta posizione, fortemente innovativa, su una
quantità di aspetti direttamente e indirettamente collegati al mantenimento dei
figli di qualsiasi età, ai diritti-doveri dei genitori e all’affidamento
condiviso. L’analisi, accuratissima ed ampia, ricchissima di spunti, finisce in
tal modo per scardinare molti dei precedenti assunti della giurisprudenza,
nonché della stessa Corte di Cassazione: e di notevole rilievo. In altre
parole, l’ordinanza 17183/2020 a parere di chi scrive rappresenta
una tappa fondamentale nell’interpretazione delle norme sull’affidamento,
suggerendo applicazioni sotto molti profili ben più vicine al pensiero e alle
intenzioni del legislatore del 2006.
In
sostanza il ricorso (respinto in toto), presentato dalla madre di un figlio di
33 anni con lei parzialmente convivente e in condizioni di lavoro precario,
intendeva sostenere la tesi che non esiste limite di età al diritto di un
figlio maggiorenne ma economicamente non autosufficiente a continuare a tempo
indeterminato a ricevere un contributo economico del genitore in precedenza
obbligato a versare un assegno in suo favore; nonché a mantenere il godimento
della casa familiare.
La
rilettura dell’art. 337 septies c.c.
Salta
immediatamente agli occhi che un simile approccio sembra mettere in relazione
quel figlio solamente con il genitore onerato monetariamente, nulla dicendo
sugli obblighi dell’altro genitore, che è da intendersi come quello che era
stato indicato come “collocatario” prima del raggiungimento della maggiore età.
Pertanto il primo dubbio che viene al lettore è: se un figlio, ad esempio
studente universitario fuori sede e fuori corso da anni, avesse per motivo di
studio cessato qualsiasi tipo di convivenza con entrambi i genitori - e dunque
anche con il già “collocatario” - quest’ultimo si sarebbe rivolto alla Suprema
Corte per ottenere l’imposizione senza limiti di tempo di un contributo in
denaro anche nei propri confronti? Certamente no. Anche perché consolidata
giurisprudenza aveva finora concesso al genitore già “collocatario” il diritto
di continuare ad esigere il versamento a proprie mani dell’assegno destinato al
mantenimento del figlio divenuto maggiorenne, procedendo iure proprio e
non ex capite filiorum (ex pluris Cass. 24989/2010). Già
questa prima considerazione mostra i gravi limiti dell’attuale prevalente
applicazione della legge 54/2006. Il
motivo, infatti, per cui quel genitore si sarebbe ben guardato dallo sporgere
reclamo sta nel fatto che i suoi obblighi economici si considerano interamente
assolti in base agli oneri legati alla convivenza, pur se questa sia di un sol
giorno al mese: ciò che conta è essere designati “collocatari”. Ovvero si
presume che quel figlio quando era ancora minorenne e in regime di affidamento
condiviso non abbia avuto rapporti di convivenza significativi con uno dei due
genitori. Come dimostra il permanere non solo nella terminologia, ma anche in
fatto e nel riconoscimento di una serie di diritti, del cosiddetto “diritto di
visita”.
La
stranezza e la non plausibilità di un modello di questo tipo (incredibilmente
dominante) acquista la massima evidenza quando quel figlio diventa maggiorenne.
A quel punto, infatti, essendo venuto meno l’affidamento con tutti i suoi contenuti,
essendo il figlio libero, in quanto maggiorenne, di muoversi tra le abitazioni
dei due genitori senza alcuna regola e fuori da qualsiasi prescrizione è in
linea di principio, ovvero concettualmente, impossibile definire un genitore
“convivente”. Al più “co-residente”, circostanza, però, meramente anagrafica e
non sostanziale. Si potrà obiettare che questo vale, tuttavia, solo
teoricamente, perché in pratica quel figlio a quel punto avrà probabilmente
adottato e consolidato un solo riferimento abitativo. Un’affermazione del
genere, indubbiamente di pe sé plausibile, appare tuttavia priva di pregio
giuridico (non si costruiscono norme, che devono valere erga omnes, su base
statistica) e neppure valida per giustificare una simile applicazione di un affidamento
che doveva essere condiviso. Dimostra soltanto le deteriori conseguenze
dell’applicazione asimmetrica e sbilanciata di un istituto nato per evitare
squilibri nella vita dei figli dopo la separazione dei genitori.
Comunque,
la siderale distanza alla quale si pone l’ordinanza rispetto alla precedente
giurisprudenza risalta con maggiore evidenza dalla diversa lettura dell’art. 337 septies c.c.: “Il
giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni
non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale
assegno, salvo determinazione del giudice, è versato direttamente
all'avente diritto”. Una formulazione della norma certamente non felice.
Anche se il riferimento all’assegno sembra contrastare con il suo ruolo
residuale previsto dall’art. 337 ter comma IV (viene disposto solo “ove
necessario…”) sgomentava la presenza del verbo servile (“può disporre”),
che alla lettera poteva significare che in assenza di tale disposizione (a
discrezione del giudice) il figlio potesse restare scoperto. Un primo dubbio
che tuttavia è stato sistematicamente ignorato, nella automatica prosecuzione
del regime precedente. A dispetto di alcune voci iniziali – purtroppo
immediatamente soffocate da posizioni contrarie. Ad es., Selene Pascasi
(www.filodiritto.com del 24 febbraio 2006) scrive “Per la prima volta si
fissano due punti fermi relativamente agli oneri economici verso il figlio
maggiorenne: in primis si afferma la non automaticità dell’obbligo di
mantenimento e, in secondo luogo, si chiarisce che l’eventuale assegno trova il
figlio quale diretto destinatario, andando così a fugare ogni precedente dubbio”.
D’altra parte la modalità dell’assegno (forma indiretta) era ben giustificabile
con l’assunzione delle proprie responsabilità da parte del figlio, riconosciuto
adesso capace di autogestione e creditore verso entrambi i
genitori, secondo modalità che sarebbe stato auspicabile ridefinire o almeno
riconsiderare. Possibilità su cui si è regolarmente sorvolato, sulla scia delle
formulazioni ante riforma del 2006, che dal punto di vista del genitore unico
affidatario parificavano sotto sostanziali profili il figlio minorenne a quello
maggiorenne non autosufficiente economicamente. Anzi, il regime monogenitoriale
veniva rafforzato a tal punto che per soddisfare l’obbligo il genitore onerato
(l’unico…) non era automaticamente legittimato a versarlo a mani del figlio, ma
occorreva che al giudice giungesse una specifica richiesta in tal senso da
parte di quest’ultimo, altrimenti la scena restava dominata dal “genitore
collocatario”. Giova, in tal senso, ripercorrere ex pluris le
considerazioni svolte da Cass. 18008/2018,
dodici anni dopo la svolta del 2006, quando la tradizione monogenitoriale
avrebbe potuto e dovuto essere superata : “Invero, secondo il consolidato
orientamento di questa Corte il genitore separato o divorziato tenuto al
mantenimento del figlio maggiore non economicamente autosufficiente e
convivente con l’altro genitore, non può pretendere, in mancanza di una
specifica domanda del figlio, di assolvere la propria prestazione nei
confronti di quest’ultimo anziché del genitore istante.
Invero,
anche a seguito dell’introduzione dell’art. 155 quinquies cod. civ. … , sia il
figlio, in quanto titolare del diritto al mantenimento, sia il genitore con lui
convivente, in quanto titolare del diritto a ricevere il contributo dell’altro
genitore alle spese necessarie per tale mantenimento cui materialmente
provvede, sono titolari di diritti autonomi, ancorché concorrenti, sicché sono
entrambi legittimati a percepire l’assegno dall’obbligato (Cass., n. 25300/13;
ord. n. 24316/13); di conseguenza, il genitore obbligato non ha alcuna
autonomia nella scelta del soggetto nei cui confronti adempiere.
In
particolare, gli argomenti posti a sostegno del motivo di ricorso fanno leva
sul presupposto che l’arte. 337 septies c.c. attribuirebbe al figlio
maggiorenne ma non economicamente autosufficiente il diritto esclusivo di
chiedere percepire la somma liquidata per contributo al mantenimento non
prevedendo la norma la legittimazione concorrente del genitore convivente,
sicché il giudice dovrebbe motivare il versamento diretto sulla base di gravi
ed adeguate ragioni. Tuttavia, gli argomenti non appaiono tali da poter
sovvertire la richiamata giurisprudenza atteso che il richiamato orientamento è
fondato sul presupposto della mancata richiesta del figlio maggiorenne cui è
subordinato il pagamento diretto.”
Una
tesi sconcertante, che rende faticosa anche la sua contestazione. Anzitutto in
regime condiviso il “genitore convivente” non dovrebbe esistere e di fatto non
esiste perché non è lecito trasformarein qualitativa una differenza che di
regola è solo quantitativa. Inoltre, non è dato comprendere perché la doppia
legittimazione a ricevere il contributo (ammessa e non concessa) dovrebbe
togliere all’obbligato la possibilità di scelta: appare ben più logico
sostenere che è corretto il versamento sia all’uno che all’altro soggetto.
Infine ( ma solo per non dilungarsi) lascia di stucco la giustificazione
finale, che può così tradursi: effettivamente le ragioni del ricorrente sono
fondate (ovvero la legge prescrive altro), ma la Suprema Corte si è sempre
espressa diversamente, quindi… . Video meliora proboque,
deteriora sequor. Il massimo della autoreferenzialità.
Ben
diversa adesso, tuttavia, la lettura dell’ordinanza: “… l'estraneità
del tema al rapporto fra i genitori risulta in modo incontrovertibile dal
diritto positivo: l'assegno "è versato direttamente all'avente diritto"
“. Addirittura, si deduce dal disposto che non solo il genitore “convivente”
non avrà più titolo per agire in giudizio contro il genitore obbligato, ma un
versamento del contributo nelle sue mani potrà essere contestato dal figlio
maggiorenne, che dichiarerebbe legittimamente di “non avere percepito alcunché”
(come osservato acutamente a suo tempo da Mario Finocchiaro). Non solo: la
Suprema Corte percepisce che continuare a far interagire i genitori ai fini del
mantenimento di un figlio ormai maggiorenne non fa che accrescere tensioni e
malessere: “il reale conflitto che emerge e gli interessi sottesi, che
impropriamente giocano un ruolo, sono quelli tra i genitori, non con il figlio
maggiorenne ormai adulto.”. E a ciò associa una diversa lettura della
presenza del verbo servile. Anzitutto deve verificarsi che effettivamente il
figlio, non per sua colpa, non è in grado di automantenersi. Dopo di che il
giudice ha facoltà di disporre un soccorso in suo favore, precisando che, riscontrato
il sussistere delle circostanze che fondano il diritto, il soccorso deve essere
disposto: “alla raggiunta prova della integrazione delle circostanze che
fondano il diritto, il giudice sarà tenuto a disporre l'assegno in discorso.”.
Il
principio di autoresponsabilità
Le
conclusioni appena accennate trovano poi piena giustificazione in una ampia
serie di considerazioni di buonsenso, che invocano non solo principi di equità
(ad es., nei confronti nel dovere di non chiedere ai genitori sacrifici
sostitutivi di quelli che l’interessato sembra non disposto a compiere) ma
anche sostenuti da una ricchissima serie di convincenti citazioni di
circostanze nelle quali il diritto fa appello al dovere di essere
autoresponsabili. Mediante considerazioni di buon senso si sottolinea che al di
sopra dei trent’anni è lecito presumere che un figlio abbia completato la
propria formazione nonché abbia avuto il tempo per trovare di che mantenersi.
Anche qui, tuttavia, la Corte prende le distanze dalla prassi sostenendo che le
ambizioni di un figlio ben possono ridimensionarsi in nome della dignità di una
propria autonomia e in nome dell’obbligo morale di non chiedere propri genitori
un sacrificio maggiore di quello che si è disposti a fare in prima persona. E
dà risposta anche al diffuso alibi dei maggiorenni: non avere trovato una
occupazione adeguata alle ambizioni legittimamente coltivate, visti i propri
titoli di studio, prendendo le distanze anche da precedenti di legittimità (ad.
es. Cass 1830/2011,
che subordina la rinuncia al contributo alla "percezione di un
reddito corrispondente alla professionalità acquisita").
Dimostrando grande modernità e adeguatezza ai tempi la Cassazione invita il
soggetto di cui si sta occupando (ma la tesi è del tutto generale) a ridurre
eventualmente “le proprie ambizioni adolescenziali” pur di trovare il modo di
auto-mantenersi. Una posizione perfettamente in linea con i recenti negativi
interventi sulla automatica corrispondenza dell’assegno divorzile al tenore di
vita goduto in costanza di matrimonio. Si tratta, dunque, evidentemente, di un
richiamo a principi ispirati a criteri di merito e dignità della persona, in
dissenso verso precedenti (e attuali) scelte assistenzialiste: “Ciò conferma
come, quando siano di rilievo i concetti del dovere e dell'autoresponsabilità -
e non solo quelli del "diritto ad ogni possibile diritto" -
dall'assistenzialismo anche il nostro ordinamento giuridico proceda di pari
passo con l'evoluzione della società civile, pur corroborando tali principi con
l'applicazione razionale e perdurante del principio di solidarietà ex art. 2
Cost.”. Ovvero: “il diritto al mantenimento del
figlio maggiorenne … perchè sia correttamente inteso, occorre che la concreta
situazione economica non sia il frutto di scelte irragionevoli e
sostanzialmente volte ad instaurare un regime di controproducente
assistenzialismo, nel disinteresse per la ricerca della dovuta indipendenza
economica.”.
L’onere
della prova e la titolarità del credito
Altro
fondamentale aspetto dell’intervento della Suprema Corte è da vedersi
nella inversione dell’onere della prova, che si sposta a carico del
beneficiario, contro costante giurisprudenza precedente (ad es., Cass. 5 marzo
2018, n. 5088, secondo cui l'onere della prova per sottrarsi
all'obbligo di mantenimento del maggiorenne grava sul genitore): “Non è
dunque il convenuto - soggetto passivo del rapporto - onerato della prova della
raggiunta effettiva e stabile indipendenza economica del figlio, o della
circostanza che questi abbia conseguito un lavoro adeguato alle aspirazioni
soggettive. Infatti, raggiunta la maggiore età, si presume l'idoneità al
reddito, che, per essere vinta, necessita della prova delle fattispecie che
integrano il diritto al mantenimento ulteriore.”
A
favore di questo orientamento l’ordinanza rammenta, infatti, che “Ciò è
coerente con il consolidato principio generale di prossimità o vicinanza della
prova, secondo cui la ripartizione dell'onere probatorio deve tenere conto,
oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi
e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio riconducibile
all'art. 24 Cost, ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere
impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio della riferibilità
o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente, ove i fatti possano essere noti solo ad una
delle parti, ad essa compete l'onere della prova, pur negativa (Cass. 25
luglio 2008, n. 20484; nonché ancora Cass. 16 agosto 2016, n. 17108; Cass. 14
gennaio 2016, n. 486; Cass. 17 aprile 2012, n. 6008; Cass., sez. un., 30
ottobre 2001, n. 13533; Cass. 25 luglio 2008, n. 20484; Cass. 1 luglio 2009, n.
15406).” Fondamentale passaggio, gravido di conseguenze, e del tutto
opportuno, ove si pensi alla impossibilità per un genitore estraniato dalla
vita del figlio di procurarsi le più elementari informazioni sulle sue attività
– se lavora, se dà esami ecc. – a causa della privacy; e quindi di
documentare la cessazione dell’obbligo.
Le
modalità per ottenere il contributo e la sua gestione
La
necessità di provare l’esistenza del diritto comporta già, di per sé, una
valutazione del giudice. Passaggio, comunque, chiarito meglio come segue, a
proposito dello scattare della maggiore età: “Da tale momento, subentra la
diversa disposizione "in favore dei figli maggiorenni", di cui
all'art. 337-septies c.c., comma 1, ogniqualvolta essi siano "non
indipendenti economicamente": nella quale l'obbligo non è posto
direttamente ed automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla
dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le
"circostanze" del caso concreto.
Esso
sarà quindi disposto - pena la superfluità della norma di riserva alla
decisione del giudice - non solamente e non semplicemente perché manchi
l'indipendenza economica del figlio maggiorenne.
Affinché
la disposizione menzionata abbia un qualche effetto, occorre, invero, eliminare
ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione circa l'attribuzione
del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente.”
Comunque,
una volta accolto il modello autoresponsabile introdotto dall’ordinanza restano
peraltro alcune zone d’ombra. Una delle principali dalla comprensibile
preoccupazione che un giovane studente della scuola secondaria possa trovarsi,
per quanto brillante e del tutto in regola con i propri doveri, con un vuoto
economico creato dai tempi tecnici necessari per avere il nulla-osta del
giudice sulla prosecuzione del mantenimento. E’ un aspetto che l’ordinanza
implicitamente considera nel momento in cui introduce il concetto di
“presunzione” dell’esistenza del diritto e definisce estremamente lieve l’onere
della prova in una situazione del genere. Chi conosce i tempi della giustizia,
tuttavia, non si sente da ciò del tutto rassicurato. Ben di più giova
riflettere sulla mancanza di interesse per gli obbligati a sospendere
adempimenti che inevitabilmente verrebbero restaurati; per cui, come ancora
l’ordinanza rammenta, nulla impedisce di continuare spontaneamente a
contribuire.
Oltre a
ciò, margini di incertezza riguardano il regime successivo alla prima
valutazione del giudice. Appare impensabile che la decisione sia assunta una
volta per tutte, poiché è la stessa ordinanza a stabilire che il diritto al
mantenimento è conseguente all’esistere e al persistere delle
circostanze che danno titolo ad esso. Se ne deduce che, ottenuto in giudizio il
nulla osta al compimento del 18º anno quella decisione dovrà essere confermata
in momenti successivi. Si deve quindi ipotizzare una periodica riconsiderazione,
ad esempio annuale, che in linea di principio dovrebbe passare attraverso la
valutazione del giudice. Salvo che la prima disposizione non preveda già una
scansione nel tempo del diritto del figlio, che comunque andrebbe sottoposta a
controllo.
Ma su
tutto questo l’ordinanza tace; e la legge in vigore pure, il che fa intuire
problemi. Non a caso l’esigenza di disciplinare i rapporti tra i genitori e il
figlio maggiorenne era stata avvertita da tempo in sede parlamentare, dando
luogo a proposte di legge trasversali pressoché identiche (identica la fonte
giuridica e la sollecitazione) del tipo «Dell'assegno perequativo
eventualmente stabilito per il mantenimento del figlio, o delle somme
eventualmente versate dai genitori in favore del figlio quale contribuzione per
il suo mantenimento, è titolare quest'ultimo quando diventa maggiorenne; il
figlio maggiorenne è altresì tenuto a collaborare con i genitori e a
contribuire alle spese familiari finché convivente. Ove il genitore obbligato
si renda inadempiente, in caso di inerzia del figlio è legittimato ad agire
anche l'altro genitore» (ddl 768, 18ª legislatura). Del tutto analoga, ad
es., a quella contenuta nel ddl 2049 della 17ª legislatura.
Altra
possibile criticità emerge dalla necessità di raccordare il tipo di gestione
caratteristico del rapporto tra uno dei genitori e il figlio minorenne
(improntato prevalentemente all’autorevolezza e ai poteri decisionali del
genitore) e il nuovo regime prospettato dall’ordinanza una volta che il figlio
abbia raggiunto la maggiore età, caratterizzato dalla sua assunzione delle
medesime facoltà per tutto ciò che lo riguarda personalmente e direttamente. A
tal proposito, dovrebbe essere respinta a livello giurisprudenziale la
tentazione di accogliere dell’ordinanza 17183/2020 solo il contenimento della
durata dell’assegno conservando la medesima strutturazione dei rapporti
familiari. Se è corretto gravare i figli maggiorenni delle responsabilità che
discendono dal nuovo status è anche doveroso concedere loro possibilità di
effettuare a tutti livelli le proprie scelte di vita. Esattamente ciò che
l’ordinanza sostiene: “La legge … fonda l'estinzione dell'obbligo di
contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni, in concomitanza
all'acquisto della capacità di agire e della libertà di
autodeterminazione, che si conseguono al raggiungimento della maggiore età.”
Un
esempio pratico della novità che si va ad introdurre può essere fornito dalla
gestione di necessità ordinarie, come l’abbigliamento, ovvero delle cosiddette
“spese straordinarie” (o meglio, le spese rilevanti tra quelle prevedibili non
legate alla convivenza). Sul punto il messaggio dell’ordinanza è chiarissimo: “l'età
maggiore” è “quell'età in cui si cessa di essere ragazzi e di
accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di
vita, anche minuta e quotidiana, e si diventa uomini e donne”.
Ciò a fronte di una situazione (e una cultura giuridica) attuale radicalmente
diversa: al di sotto dei 18 anni il “genitore collocatario”, tipicamente la
madre, non di rado non solo lava e stira gli indumenti, ma provvede alla
relativa scelta e acquisto, magari decidendo con amorevole cura anche quando
sia il momento di cambiarli, deponendoli puliti sulla sponda del letto del
figlio. Tutto regolare, trattandosi di oneri che per i figli minorenni
rientrano tutti nell’assegno, secondo le previsioni dei Protocolli in vigore
nei tribunali. Dopo di che, tuttavia, nella continuità attuale quasi sempre si
prosegue sottomettendo anche il figlio maggiorenne a un regime di stretta
dipendenza dal già “collocatario”, da una parte risparmiandogli ogni genere di
fatica, ma insieme negandogli la possibilità di acquistare la capacità di
autoamministrarsi, gestendo le risorse a lui destinate: insomma, di emanciparsi.
E il perché è ben triste: si pensa e si scrive che: “Non si può consegnare
tutto quel denaro [dell’assegno di mantenimento] nelle mani di un ragazzo di 18
anni e un giorno, perché lo sperpererebbe tutto la prima sera portando a cena
la fidanzata”. Ovviamente considerazioni di questo tipo sorvolano sul fatto che
il medesimo regime di “amministrazione controllata“ verrà utilizzato per anni a seguire, sino alla
completa indipendenza economica, anche con figli ultra trentenni, come nel caso
di specie. Così come si sorvola sulla incontestabile circostanza che quel
medesimo figlio incosciente e scapestrato, di 18 anni e un giorno, può
acquistare e vendere immobili, eleggere il parlamento e portare una pistola.
Per tacere dell’aspetto fondamentale: non si possono costruire criteri di
giudizio e prassi applicative fondate sulla presunzione della
colpevolezza o della inadeguatezza di un normale cittadino. E’ un
elementare principio di diritto.
Ebbene,
secondo l’ordinanza tutto questo dovrebbe finire, almeno per i maggiorenni. E
il modo c’è, anche se la Cassazione non la rammenta: la forma diretta del
mantenimento, prevista prioritariamente dalla normativa (art. 337 ter comma IV
c.c.). In questo modo il figlio prima dialogherebbe separatamente con ciascuno dei
genitori facendo presente a ciascuno i suoi bisogni, divisi per capitoli di
spesa e attribuiti in funzione del reddito: dopo di che, alla maggiore età,
riceverebbe da ciascuno la somma necessaria a coprire quelle medesime esigenze,
provvedendo personalmente.
D’altra
parte, si può aggiungere, non si dà forse obbligatoriamente diritto di
parola ai dodicenni? Allora non è ragionevole che a 18 anni si possano
gestire direttamente le risorse a sé destinate? E se davvero si è convinti che
sia troppo presto, l’unica via legittima di intervento è ritardare il
raggiungimento della maggiore età, non certo discriminare i figli dei separati
da quelli che vivono nelle famiglie unite, disponendo “cautele” che
appartengono solo alla pseudo-sociologia e nulla hanno di giuridico.
Il
destino economico del “genitore collocatario” e la tutela del “coniuge debole”
Cercando
di comprendere e anticipare quali saranno le ricadute concrete delle
indicazioni della Suprema Corte – se accolte - può essere motivo di
preoccupazione la sorte del coniuge debole a seguito di questo suo nuovo
orientamento. Realisticamente, la gestione delle risorse destinate al figlio
maggiorenne in regime di convivenza con esso, oltre tutto conservando il
godimento della casa familiare, rappresentava indubbiamente una sorta di ancora
di salvezza, di ciambella di salvataggio per il genitore meno abbiente. Di
regola la madre. È pertanto del tutto comprensibile che le valutazioni
dell’ordinanza - anzi, meglio, i principi di diritto in essa enunciati - possano
essere visti con apprensione. L’ordinanza, tuttavia, sul punto è estremamente
chiara. L’articolo 2 della
costituzione, ovvero il principio di solidarietà, continuerà ad avere pieno
effetto. Dunque ciò che si vuole è solo che ciascuno riceva ciò che a lui
spetta e che non si cerchi di risolvere i propri problemi per scorciatoie che
la legge non ammette; anche se finora sorprendentemente praticabili. In altre
parole, è la via surrettizia per risolvere le difficoltà che non può essere
considerata accettabile, fermo restando che il soggetto debole avrà tutto il
diritto di chiedere un adeguato sostegno con un’iniziativa, però, a sé stante.
D’altra
parte l’ordinanza prende posizione, con lo stesso spirito, anche sul problema
dell’assegnazione della casa familiare, ribadendo che ai fini della permanenza
di un diritto al godimento della casa familiare la coabitazione dovrà avere
carattere di stabilità e continuità. Mentre in precedenza era stato più volte
affermato che anche lo studente fuori sede, che tuttavia rientrasse in
occasione delle vacanze nella casa familiare, dava diritto al genitore
collocatario di mantenervi la residenza.
In
realtà, come già osservato, il vero problema, che dovrebbe influire già oggi
sia sulla gestione delle risorse che sull’assegnazione della casa familiare e
sul permanere del diritto ad abitarvi in presenza di un figlio maggiorenne non
autonomo, non consiste tanto nella quantità di giorni che un figlio trascorre
presso un genitore rispetto a quando si trova altrove, quanto nel fatto che
divenuto maggiorenne può oscillare in modo imprevedibile tra l’abitazione del
padre e quella della madre: il che rende non plausibile ogni attribuzione del
godimento della casa familiare in nome della “convivenza” con il figlio. Ovvero
vanifica ogni possibilità di deroghe rispetto ai criteri ordinari, fondati sui
diritti reali nei confronti del bene. Non a caso il Tribunale di Varese –
probabilmente avvertendo il problema – ha inserito nelle proprie Linee guida
per la separazione l’obbligo di dichiarare presso quale genitore intende
risiedere il figlio maggiorenne. Una imposizione giuridicamente irricevibile da
parte del figlio – soggetto di piena capacità di agire – ma significativa di un
imbarazzo applicativo di chi persiste nel sostenere a oltranza modelli
monogenitoriali; resa più grave dal fatto che a quel documento rimanda il
Ministero della Giustizia quale esempio da seguire.
Ancora
una volta, comunque, come per tutte le scelte paritetiche, occorre respingere
la tentazione di sostenere che questa decisione penalizza il figlio, perché
così non è; di per sé. Difatti, se sono state applicate fedelmente le
indicazioni dell’affidamento condiviso il figlio avrà frequentato
equilibratamente entrambi i genitori e la casa familiare sarà stata assegnata a
chi poteva vantare su di essa un diritto reale, che la presenza o meno del
figlio non andrà a toccare nel momento in cui si emancipa. Ciò mentre il coniuge,
se debole economicamente, avrà ottenuto un sostegno adeguato a reperire un
alloggio adeguato, quanto meno perché per uguale tempo dovrà ospitarvi il
figlio. Così come giustamente l’ordinanza rammenta le previsioni dell’art. 315 bis comma 2 c.c., in
forza delle quali il “genitore debole” anche se ha con il figlio una prevalente
convivenza non resta comunque senza tutele, perché questi, oltre che rispettare
i genitori, “deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle
proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché
convive con essa”.
Si
osserva, dunque, ancora una volta quanto moderna e coerente sia la valutazione
dell’ordinanza, soprattutto se le si mettono accanto le previsioni del decreto legislativo 154/2013, che
sul punto conserva il vecchio privilegio a favore del coniuge debole
sull’assegnazione della casa familiare non modificando la legge 898/1970,
benché incompatibile con le previsioni a vantaggio dei figli di cui
all’articolo 337 sexies c.c., successivamente introdotte.
Le
ripercussioni sull’applicazione dell’affidamento condiviso
Prevedibilmente
il nuovo orientamento della Cassazione incontrerà notevoli resistenze, o
interpretazioni riduttive, ponendosi in evidente contrasto con posizioni
ideologiche, ammantate di pseudosociologia, di una parte della magistratura e
della società civile, che mette al centro dei propri interessi la tutela del
“coniuge debole”, anche quando questo va a danno del figlio. È interessante
notare, a questo proposito, come all’“interesse” dei figli si faccia
riferimento – e con grande enfasi - solo fino al momento in cui può essere
utilizzato a vantaggio del coniuge debole: ovvero del genitore collocatario.
Quando ciò non avviene, ad es. in occasione dei più drastici sradicamenti
conseguenti alla volontà di costui di trasferirsi altrove – anche in Siberia -
si verifica puntualmente l’opposto, ovvero ciò che andrebbe direttamente a suo
vantaggio passa in secondo piano rispetto al danno – si dice - che subirebbe
staccandosi dalla sua principale figura di riferimento: il genitore
collocatario. E un altro eclatante esempio è fornito proprio dal mantenimento
del figlio maggiorenne, per le ragioni appena viste.
A ben
guardare, dunque, l’ordinanza, anche se apparentemente sembra penalizzare i
figli maggiorenni di genitori separati ponendo un limite temporale al diritto
al mantenimento, in realtà in tutte le situazioni ordinarie, numericamente di
gran lunga prevalenti, li ricolloca nella posizione di tutto rispetto che
compete loro in quanto cittadini a priori affidabili come tutti gli altri e
quindi in grado di autogestire le risorse ad essi destinate, così accelerando e
facilitando il giusto processo di emancipazione. Dunque, se qualcuno perde dei
vantaggi è solo chi non se li merita; ma per tutti gli altri ci sono solo passi
avanti. Ad una attenta lettura niente altro vuol dire il principio di
autoresponsabilità: è un investimento per il futuro - scommettendo sui giovani
- che lo Stato intende compiere, oltre che un atto dovuto se si vogliono
evitare discriminazioni contrarie alla nostra Costituzione.
D’altra
parte, volendo cercare di dedurre, senza forzature, l’attuale orientamento
della Suprema Corte in merito all’applicazione dell’affidamento condiviso quale
può emergere dai contenuti dell’ordinanza in esame, si osserva che, pur
mancando una diretta presa di posizione, si riscontra nel testo una serie di
impegnative affermazioni, appena appena velate dall’inevitabile garbato
rispetto per la giurisprudenza precedente. Certamente, quindi, non vi si legge
esplicitamente “si è sbagliato nel creare un genitore prevalente”; tuttavia, di
questa “prevalenza”, così come di una qualsiasi differenza dei ruoli, non c’è
traccia. Anzi. Il rapporto di convivenza del figlio con ciascuno dei genitori,
precedente alla maggiore età è considerato irrilevante. L’intera storia che
precede la maggiore età sparisce. Ai fini del mantenimento il figlio “nasce”
giuridicamente il giorno del suo 18º compleanno e la sua storia futura si
svolgerà “a prescindere”. Si è lontani anni luce da quella sorta di
intoccabilità dei “diritti acquisiti” dai genitori. Il principio, ripetutamente
sottolineato dall’ordinanza, è quello, come già detto, della autoresponsabilità
e della conseguente autodeterminazione.
Infine,
avere restituito al figlio maggiorenne la gestione del contributo al suo
mantenimento - lasciando intuire che in effetti tipicamente dovrebbero essere
due, provenendo da ciascuno dei genitori – già di per sé riduce drasticamente
l’interesse ad essere indicati come “genitore prevalente”, il che lascia
sperare in una significativa riduzione del relativo frequente e acceso
contenzioso.
Conclusioni
In
sostanza il provvedimento recentemente assunto dalla Suprema Corte rappresenta
una pietra miliare nella storia recente del diritto di famiglia, collocandosi
fra le tre più importanti decisioni che disciplinano l’affidamento condiviso,
insieme alla 16593 del 2009 -
che affermava l’irrilevanza della conflittualità tra i genitori ai fini
dell’applicazione dell’istituto - e la 23411 del 2008 che,
sia pure a denti stretti, riconosceva la priorità della forma diretta del
mantenimento e la residualità dell’assegno. Non resta che augurarsi che non
seguano ad esso letture distruttive ma, al contrario, rappresenti uno stimolo
per allargare ulteriormente il numero dei tribunali che danno costantemente
della riforma del 2006 una fedele lettura. In attesa che il Parlamento consegni
al paese una sua inequivocabile e definitiva formulazione.
https://www.altalex.com/documents/news/2020/09/01/mantenimento-figlio-maggiorenne

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